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COVID19/SARS-CoV2, UN'EMERGENZA SANITARIA MONDIALE CHE TUTTI DOBBIAMO COMPRENDERE E GESTIRE. La conoscenza come difesa della salute pubblica

Centers for Disease Control and Prevention (CDC) Alissa Eckert , MS; Dan Higgins, MAMS. 2020 INTRODUZIONE Nelle ultime s...

sabato 18 aprile 2020

COVID-19 associata alla gravidanza: dati e raccomandazioni

La pandemia causata da SARS-CoV2 (Severe acute respiratory syndrome coronavirus 2) ha esposto le popolazioni vulnerabili a una crisi sanitaria globale senza precedenti. Le conoscenze acquisite da precedenti focolai di Coronavirus umano, in particolare SARS-CoV (Severe acute respiratory syndrome coronavirus) e MERS-CoV (Middle East respiratory syndrome coronavirus), suggeriscono che le donne in gravidanza e i loro feti siano soggetti particolarmente a rischio1,2.

I cambiamenti fisiologici che si verificano durante la gravidanza, come per esempio le alterazioni dell'immunità cellulare mediata, rendono la madre più vulnerabile alle infezioni gravi3. Cambiamenti anatomici come l’aumento del diametro trasversale della gabbia toracica, del volume polmonare e del livello del diaframma, così come  la vasodilatazione, diminuiscono la tolleranza materna all'ipossia e possono portare a edema della mucosa e aumento delle secrezioni del tratto respiratorio superiore 4.

Per quanto riguarda il feto e il neonato, l'immaturità del sistema immunitario innato e adattivo li rende altamente suscettibili alle infezioni5. La disregolazione di fattori come le citochine e la cascata del complemento possono avere conseguenze deleterie sullo sviluppo e sulla funzione del cervello. Tuttavia, nonostante COVID-19 sia nota per causare gravi complicazioni respiratorie potenzialmente letali negli adulti, in particolare negli immunocompromessi, non ci sono dati comparativi per determinare se la gravidanza è un fattore di rischio per la polmonite causata da SARS-CoV26.

I lavori presenti in letteratura hanno tutti il limite di essere stati condotti su un piccolo numero di casi; inoltre la maggior parte delle pubblicazioni non ha utilizzato metodologie qualitativamente accettabili o mostrano dei dati un po’ dubbi.
Zaigham et al.7 hanno condotto una ricerca bibliografica completa utilizzando diversi browsers come MEDLINE, EMBASE e Google Scholar, relativa all’arco temporale che andava dall’8 dicembre 2019 al 4 aprile 2020.. Il gruppo ha identificato 108 donne in gravidanza affette da COVID-19 che presentavano febbre al momento del ricovero (68%). Tosse secca e persistente (34%), malessere (13%) e dispnea (12%) sono sintomi descritti meno comunemente. La diarrea è stata identificata solo in sette casi (6%). Solo un neonato su 75 casi testati è risultato positivo per l'infezione da SARS-CoV-2, mentre altri hanno riportato linfocitopenia (carenza di linfociti) transitoria e test di funzionalità epatica squilibrati o coagulazione intravascolare disseminata. Solo un neonato ha mostrato una rRT-PCR positiva 36 ore dopo la nascita, nonostante fosse stato isolato dalla madre. Questi risultati non possono escludere che il feto e il neonato rispondano, spesso subclinicamente, all'infezione della madre e quindi non si può escludere la trasmissione verticale materno-fetale.

In risposta alle dichiarazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e alle preoccupazioni internazionali riguardanti l'epidemia di coronavirus 2019 (COVID-19), la FIGO (International Federation of Gynecology and Obstetrics) ha pubblicato delle linee guida8 per la gestione delle donne in gravidanza affette da COVID19 riassunte in quattro parti:

(1) cure prenatali ambulatoriali nelle cliniche ambulatoriali;
(2) gestione nel contesto del triage ostetrico;
(3) gestione intra-partum;
(4) gestione post-partum e cure neonatali.

Sono state raccolte anche indicazioni sul trattamento medico delle donne in gravidanza con infezione da COVID-19.
Le raccomandazioni raccolte devono essere considerate suggerimenti e potrebbe essere necessario adeguarle all'interno di ciascun centro medico sulla base delle linee guida nazionali locali (se disponibili), bisogni, risorse e limitazioni.

1. Cure ambulatoriali prenatali

Le visite ambulatoriali prenatali devono sicuramente garantire il minimo rischio di trasmissione tra donne in gravidanza, operatori sanitari e altri pazienti in ospedale, ricorrendo alle dovute precauzioni - prime fra tutte l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale (DPI).
Per garantire la sicurezza di tutti, è opportuno che tutte le donne che devono recarsi in ambulatorio siano contattate prima della visita e invitate ad andare in clinica senza accompagnatore. In ambulatorio deve essere effettuato uno screening per valutare eventuale esposizione al virus e potenziali sintomi d’infezione. In caso di screening positivo, devono scattare i protocolli d’emergenza e la visita dovrebbe essere rinviata di 14 giorni, a meno che non sia urgente per motivi materni e/o fetali. Nel frattempo, è necessario accertare la diagnosi di COVID-19.
Dopo la diagnosi, se l’infezione COVID-19 è lieve è preferibile ridurre il numero di visite cliniche, sostituendole con monitoraggio a distanza tramite telefonate o videochiamate durante le quali può essere consigliato di controllare la pressione sanguigna. Il monitoraggio deve essere ovviamente rivolto sia alla gravidanza sia all’infezione COVID-19.
Particolare attenzione, però, dovrebbe essere prestata alle donne con comorbidità, soprattutto iperglicemia e ipertensione che sono fattori di rischio noti per il peggioramento del quadro clinico di COVID-19. In questi casi, infatti, si può rendere necessario il ricovero se le condizioni peggiorano.
Sebbene al momento non vi siano prove che l'infezione da COVID-19 sia associata a complicanze del feto o della placenta, fino a quando non saranno disponibili ulteriori dati si consiglia un monitoraggio fetale più attento (tramite ecografia) nelle donne con confermata COVID-19.


2. Presentazione al triage

Quando una paziente si presenta al triage ostetrico o al pronto soccorso per motivi respiratori o ostetrici, deve essere sottoposta a screening che valuti il rischio di esposizione al virus e l’eventuale presenza di sintomi della COVID-19. In caso di screening positivo, la paziente deve essere invitata a indossare la mascherina, posta in isolamento e l’equipe sanitaria dovrebbe prendere le necessarie precauzioni.
Le donne con sintomi lievi e senza fattori di rischio per malattie gravi possono essere dimesse dopo essere state avvisate di monitorare l’eventuale peggioramento della sintomatologia. Le donne con sintomi moderati o gravi, o anche lievi ma con comorbidità, devono sottoporsi a una valutazione più dettagliata. Le decisioni in merito alla gestione di questi casi dovrebbero essere personalizzate in base ai sintomi, ai fattori di rischio e ai risultati della valutazione.

3. Gestione intrapartum e postpartum

Per casi sospetti/probabili/confermati di infezione da COVID-19, il parto dovrebbe idealmente essere condotto in una stanza di isolamento a pressione negativa. Il numero di membri dello staff che si prendono cura della paziente dovrebbe essere il più basso possibile.
I tempi e le modalità del parto dovrebbero essere personalizzati, dipendendo principalmente dallo stato clinico della paziente, dall'età gestazionale e dalle condizioni fetali. Il parto vaginale non è controindicato nei pazienti con COVID-19 sospetti/probabili/confermati.
È possibile richiedere un’assistenza strumentale nella fase espulsiva del parto qualora la funzionalità respiratoria della partoriente sia diminuita. Il parto dovrebbe essere accelerato quando si presentano evidenze di sofferenza fetale, scarsa progressione del travaglio e/o peggioramento delle condizioni materne.
Lo shock settico, l'insufficienza acuta di un organo o la sofferenza fetale sono indicazioni al parto cesareo di emergenza. Per la protezione dell'équipe medica, dovrebbe essere evitato l'uso di piscine per il parto in ospedale, poiché è provata la presenza del virus nelle feci e per l’impossibilità per gli operatori sanitari di utilizzare dispositivi di protezione individuale (DPI) adeguati a proteggersi dal contagio.
Sia l'anestesia locale che l'anestesia generale possono essere prese in considerazione, a seconda delle condizioni cliniche della paziente. L'anestesia locale è preferibile dato il maggior rischio di contagio per il personale in caso di procedure di anestesia generale che inducono la produzione di aerosol (ad esempio l'intubazione). Questo è il motivo per cui la maggior parte delle unità in tutto il mondo sta cercando di evitare il parto cesareo in anestesia generale dove possibile.
Gli embrioni e/o i feti abortiti e la placenta di donne in gravidanza con infezione da COVID-19 devono essere trattati come tessuti infettivi e smaltiti in modo appropriato; se possibile, devono essere eseguiti test di questi tessuti per SARS-CoV2 mediante rRT-PCR.

4. Cure neonatali in donne con infezione COVID-19 sospetta o confermata

Per quanto riguarda la gestione neonatale di casi sospetti, probabili e confermati di infezione materna da COVID-19, il neonato deve essere trasferito nell'area di rianimazione per essere valutato dal team pediatrico. Non ci sono prove sufficienti del fatto che un taglio ritardato del cordone aumenti il rischio di infezione per il neonato attraverso il contatto diretto, ma per il principio di precauzione è opportuno che i medici delle unità in cui si raccomanda il taglio ritardato del cordone valutino attentamente se continuare questa pratica piuttosto che optare per un taglio più rapido. Le precauzioni di contatto e l'uso dei DPI devono essere mantenute durante il periodo postpartum, fino a quando la madre risulta negativa per COVID-19. Al momento non ci sono prove sufficienti sulla sicurezza dell'allattamento al seno e sulla necessità della separazione madre/bambino. Se la madre è gravemente ammalata, l’opzione migliore sembra essere la separazione con tentativi di tirare il latte materno per mantenere la produzione di latte. Ci dovrebbe essere un tiralatte dedicato, accuratamente lavato dopo ciascun pompaggio. Se la paziente è asintomatica o con infezione lieve, l'allattamento al seno e la co-localizzazione (chiamata anche rooming-in) possono essere considerati dalla madre in coordinamento con gli operatori sanitari, o possono essere necessari se le limitazioni della struttura impediscono la separazione madre/bambino. Poiché la preoccupazione principale è che il virus possa essere trasmesso da goccioline respiratorie, piuttosto che dal latte materno, le madri che allattano dovrebbero assicurarsi di lavarsi le mani e indossare una maschera chirurgica a tre strati prima di toccare il bambino. Durante il room-in, la culla del bambino deve essere tenuta ad almeno 2 metri dal letto della madre e può essere utilizzata una barriera fisica come una tenda. In alternativa, si potrebbe chiedere alla madre di tirarsi il latte mentre qualcun altro nutre il bambino. La maggior parte delle visite postpartum può essere condotta in remoto purché la paziente non abbia preoccupazioni specifiche che richiedono un esame di persona. Alcuni tipi di preoccupazioni (riguardanti per esempio il seno e/ o le cicatrici addominali) possono essere valutate anche solo attraverso video o foto. La riduzione del numero di visite può essere utile anche in caso di carenza di operatori sanitari in quanto è possibile che una parte considerevole degli operatori sanitari debba essere isolata a causa di un'esposizione inattesa a COVID-19.

Aspetti psicologici

Le donne in gravidanza, in generale, hanno un rischio maggiore di ansia e depressione. Questa evidenza pone un tema di salute molto rilevante soprattutto durante un’epidemia. Infatti,  i timori legati alla sospetta/probabile/confermata infezione da COVID-19, possono indurre la presentazione di vari gradi di sintomi psichiatrici dannosi per la salute della madre e del feto9. Inoltre, è da considerare anche che la separazione madre/bambino obbligata può rallentare l’instaurazione del legame precoce e ritarda sicuramente l’inizio dell’allattamento al seno (anch’esso una pratica importante nella relazione madre/neonato).  Questi fattori sono inevitabilmente causa di ulteriore stress per le madri nel periodo post-partum. Gli operatori sanitari dovrebbero, perciò, prestare attenzione alla salute mentale delle partorienti, valutandone attentamente i ritmi sonno/veglia, le ragioni di ansia e depressione ed essere tempestivi nel rilevare eventuale ideazione suicidaria. Il supporto psicologico e il consulto psichiatrico, soprattutto perinatale, appaiono quanto mai importanti in questo momento storico.

Attualmente queste sono le informazioni disponibili in merito alla COVID-19 associata alla gravidanza ma sicuramente col passare delle settimane, saranno disponibili ulteriori dati che potrebbero portare a cambiamenti nelle attuali conoscenze e raccomandazioni.



BIBLIOGRAFIA

1.          Wong SF, Chow KM, Leung TN, et al. Pregnancy and perinatal outcomes of women with severe acute respiratory syndrome. Am J Obstet Gynecol. 2004;191(1):292-297. doi:10.1016/j.ajog.2003.11.019
2.          Alfaraj SH, Al-Tawfiq JA, Memish ZA. Middle East Respiratory Syndrome Coronavirus (MERS-CoV) infection during pregnancy:  Report of two cases & review of the literature. J Microbiol Immunol Infect. 2019;52(3):501-503. doi:10.1016/j.jmii.2018.04.005
3.          Goodnight WH, Soper DE. Pneumonia in pregnancy. Crit Care Med. 2005;33(10 Suppl):S390-7. doi:10.1097/01.ccm.0000182483.24836.66
4.          O’Day MP. Cardio-respiratory physiological adaptation of pregnancy. Semin Perinatol. 1997;21(4):268-275. doi:10.1016/s0146-0005(97)80069-9
5.          van Well GTJ, Daalderop LA, Wolfs T, Kramer BW. Human perinatal immunity in physiological conditions and during infection. Mol Cell Pediatr. 2017;4(1):4. doi:10.1186/s40348-017-0070-1
6.          Mimouni F, Lakshminrusimha S, Mendlovic J, Pearlman SA, Raju T, Gallagher PG. Perinatal aspects on the covid-19 pandemic : a practical resource for perinatal – neonatal specialists. J Perinatol. 2020. doi:10.1038/s41372-020-0665-6
7.          Zaigham M, Andersson O, Zaigham M. Maternal and Perinatal Outcomes with COVID-19: a systematic review of 108 pregnancies. :0-3. doi:10.1111/aogs.13867
8.          Poon LC, Yang H, Kapur A, et al. Global interim guidance on coronavirus disease 2019 (COVID-19) during pregnancy and puerperium from FIGO and allied partners: Information for healthcare professionals. 2019. doi:10.1002/ijgo.13156
9.          Dørheim SK, Bjorvatn B, Eberhard-Gran M. Insomnia and depressive symptoms in late pregnancy: a population-based study. Behav Sleep Med. 2012;10(3):152-166. doi:10.1080/15402002.2012.660588




mercoledì 8 aprile 2020

IL PUNTO SUGLI ASINTOMATICI INFETTATI DA SARS-CoV2 E SUI TEST SIEROLOGICI


Gli individui asintomatici infettati dal virus SARS-CoV2 rappresentano sicuramente una problematica che deve essere ben compresa e valutata per poter gestire al meglio sia il contenimento dell’infezione sia l’uscita dal lockdown.

COVID-19 è una malattia respiratoria infettiva che si presenta con un ampio spettro di manifestazioni cliniche, che vanno dalle forme paucisintomatiche (pochi sintomi) e lievi, a quelle moderate e severe.

Oltre ai soggetti paucisintomatici, però, vi sono anche gli asintomatici.

Gli asintomatici, come anche i paucisintomatici, costituiscono un problema sanitario perché, se non identificati, non sono sottoposti alle misure di contenimento più stringenti e, quindi, possono continuare ad uscire per le necessità previste dalla legge vigente e, potenzialmente, diffondere il contagio.
Inoltre, non essendo conteggiati nel numero totale di individui infettati, essi alterano i dati ufficiali su cui è possibile fare delle valutazioni sia per comprendere meglio la malattia (ad esempio la sua letalità) sia per capire come e con quali tempi si potrà ripartire con le attività socio-economiche.

Essere asintomatico, in generale, vuol dire aver contratto il virus ma non presentare sintomi e segni della malattia da esso provocata. Tuttavia, la situazione prodotta dall'infezione da SARS-CoV2 non è così netta, infatti esistono persone che:
  • non hanno sintomi e segni della malattia;
  • persone che hanno pochissimi sintomi e molto lievi, tanto da essere facilmente ascritti a un semplice raffreddore o ad un’allergia (i paucisintomatici);
  • persone che non hanno sintomi ma che presentano qualche segno a livello polmonare, individuabile solo attraverso la TC (Tomografia Computerizzata), più nota come TAC (Tomografia Assiale Computerizzata) [1,2,3]. 
L’ultimo caso è stato messo in evidenza in alcuni studi, ma di fatto è spesso identificabile come un riscontro incidentale. Ovvero, si tratta si persone sottoposte a TC per altre ragioni o di alcune persone per quali esiste un forte sospetto che abbiano contratto il virus.

Inoltre, sembra che gli asintomatici possano:
  • restare tali per tutto il tempo dell’infezione o trasformarsi in paucisintomatici o sintomatici dopo un certo periodo [4]; 
  • sviluppare persino forme severe della malattia dopo un certo periodo di infezione asintomatica [5].
Indipendentemente da ciò, però, essi costituiscono comunque un veicolo del virus e le evidenze collezionate in tutto il mondo stanno mostrando tutte le problematicità legate a questo tipo di trasmissione. Fortunatamente sembra essere esclusa la possibilità che si possa essere portatori sani cronici di SARS-CoV2, come già era stata esclusa per la SARS del 2003 e la MERS del 2012 [4]. 
Una delle possibilità che vanno contemplate quando si ha a che fare con le malattie infettive, infatti, è che il virus si “nasconda molto bene” nell'organismo ospite, al punto da non dare nessun sintomo pur continuando a rimanervi per lunghissimo tempo. Il virus, quindi, “sfrutta” l’individuo ignaro dell’infezione per diffondersi.  

L’ambiente in cui più frequentemente è stato descritto il fenomeno di trasmissione del virus da parte degli asintomatici è, ovviamente, quello casalingo [6,7,8,9]. 
La trasmissione entro le mura domestiche è la nuova sfida che si sta affacciando sullo scenario di questa pandemia.
Se da un lato le misure di contenimento che obbligano tutti alla permanenza in casa stanno riuscendo a ridurre il numero di contagiati registrati ogni giorno, “spalmandoli” in un tempo più lungo (ne abbiamo parlato qui), è indubbio che esistono delle criticità rispetto alla gestione casalinga sia degli individui accertati come positivi al virus sia di coloro che sono messi in isolamento preventivo. Essi, infatti, rischiano di contagiare i familiari, i quali non sono sottoposti alle stesse misure di contenimento e possono allontanarsi dal domicilio per comprovate esigenze (almeno finché non presentano eventuali sintomi).
Qualora tra i familiari vi fosse un asintomatico, ciò rappresenterebbe evidentemente un rischio per quanti possono venirvi in contatto all'esterno. Sebbene l’utilizzo di mascherine e altri dispositivi di protezione individuale, uniti alle buone pratiche igieniche, siano validi strumenti per evitare la trasmissione, purtroppo, il rischio zero non esiste.

Un aspetto particolarmente interessante del contagio è quello del comportamento del virus nella popolazione pediatrica. In generale, i bambini sembrano essere poco suscettibili all'infezione da parte di SARS-CoV2, di conseguenza il numero di bambini infettati è abbastanza piccolo. Tuttavia, nei bambini sembra esserci una maggiore prevalenza di infezione asintomatica rispetto agli adulti. La percentuale dei bambini portatori del virus potrebbe essere addirittura quasi il 50% [10]. 
Sebbene sia confortante l’idea che i bambini sperimentino nella stragrande maggioranza dei casi pochi e lievi sintomi della malattia o non ne sperimentino affatto, non si può nascondere che questa evidenza mette di fronte ad un problema di salute pubblica che ha implicazioni sociali di rilievo (basti pensare alla possibilità di riaprire o meno le scuole).

Assodata la presenza di asintomatici e paucisintomatici, testare e isolare solo gli individui che presentano una manifestazione clinica della malattia rischia di essere una strategia non pienamente efficace.
Molto dipende dalla reale percentuale degli asintomatici, che ad oggi è stimata in una forbice decisamente ampia e su cui occorre gettare maggiore luce. Gli studi finora disponibili sono spesso stati condotti su popolazioni piccole, perciò le statistiche risentono delle ridotte dimensioni dei campioni esaminati. Si passa, infatti, da studi che riferiscono del 1-5% di asintomatici [11,12,13] a studi che mostrano percentuali più alte, come ad esempio quello condotto sui passeggeri della nave da crociera Diamond Princess, rimasta bloccata in Giappone. La percentuale degli asintomatici a bordo è stata stimata intorno al 18%, e lo studio rappresenta una base più solida su cui ragionare perché a bordo sono stati condotti 3063 test e 634 individui sono risultati positivi all'infezione [14]. Altri studi, tra cui anche quello condotto a Vo’ Euganeo, stimano la percentuale di asintomatici in misura ancora maggiore rispetto a quanto apparso sulla Diamond Princess, arrivando a più del 50% [15,16]. 
Il caso di Vò Euganeo (in Veneto) è ben indicativo di quanto possa essere ampia la prevalenza degli asintomatici, stimata in una percentuale compresa tra il 50% e il 75%, avendo effettuato i test sull'intera popolazione (circa 3000 persone) [16]. Diversamente dal caso della Diamond Princess, l'indagine di Vo' Euganeo non risente di un'eventuale "selezione" del campione come si può immaginare sia avvenuto per il caso Diamond Princess, dato che si trattava di una crociera e, pertanto, a bordo potevano essere poco rappresentati bambini ed anziani. L’indagine condotta in questo Comune, inoltre, offre lo spunto di riflessione sull'utilità di effettuare indagini su una scala più ampia di quanto non si sia potuto ragionevolmente fare finora. 

I test su larga scala rappresentano, di fatto, l’unico modo per stimare in modo accurato e attendibile la prevalenza degli asintomatici. Su larga scala si può scegliere di impiegare o il test diagnostico considerato il gold standard”, ovvero il saggio rRT-PCR effettuato a partire dal tampone nasofaringeo (qui), oppure i test sierologici.
I test sierologici rilevano la presenza delle immunoglobuline specifiche contro il virus, ovvero degli anticorpi che l’organismo produce in modo specifico per rispondere all'infezione da SARS-CoV2. Questi sono anche utili a studiare l'immunità acquisita dagli individui. 

Occorre precisare che i test sierologici soffrono di alcune limitazioni di natura biologica e tecnica, risultando così meno sensibili e specifici rispetto al saggio rRT-PCR. Di conseguenza, non è consigliabile affidarsi solo a questi per la diagnostica ma è necessaria la conferma in rRT-PCR. Possono però essere un valido strumento di screening di popolazione. Associati al test “gold standard” si potrebbe ottenere una buona copertura del campione di popolazione nazionale e risultati accurati per una valutazione epidemiologica.

I TEST SIEROLOGICI
I test sierologici, in generale, sono dei saggi analitici che sfruttano la reazione antigene-anticorpo.

Gli anticorpi
Gli anticorpi, anche noti come immunoglobuline (Ig), sono glicoproteine (proteine che portano degli zuccheri legati) di grandi dimensioni e a forma di Y, facenti parte della componente adattiva del sistema immunitario. Tali glicoproteine sono in grado di riconoscere e legare in modo specifico l'antigene. Quest'ultimo è una molecola (o una parte di essa) appartenente ad un agente estraneo all'organismo, per esempio un patogeno.
Gli anticorpi, quindi, vengono prodotti da specifiche cellule del sistema immunitario quando questo è attivato a rispondere contro un agente estraneo.
A livello strutturale, nelle immunoglobuline si distinguono un'estremità che lega l'antigene, chiamata Fab, e una che svolge altre funzioni (quali il legame con i macrofagi e l'attivazione del sistema del complemento), chiamata Fc.
La porzione Fab contiene una regione molto variabile tra gli anticorpi, proprio perché ciascun anticorpo deve riconoscere un diverso antigene.
Nel'anticorpo, inoltre, si riconoscono due catene pesanti (H, dall'inglese "heavy"), di circa 400 aminoacidi, e due catene leggere (L, dall'inglese "light"), di circa 200 aminoacidi, tenute insieme da legami chimici. Poiché esistono diversi tipi di catene H, si individuano cinque classi di immunoglobuline: IgA, IgG, IgD, IgE e IgM. Ogni classe possiede un tipo specifico delle possibili catene H, che sono rispettivamente indicate con le lettere greche α, γ, δ, ε, μ (Fig.1).

Fig.1 - Rappresentazione schematica della struttura delle immunoglobuline. 

Attualmente si parla molto dei test sierologici ipotizzandone utilizzi diagnostici o di screening per la COVID-19. Come anticipato, si tratta di test che rilevano le immunoglobuline specifiche contro determinati antigeni del virus SARS-CoV2. 

Partendo da un prelievo di sangue, con questi test si può individuare la presenza delle immunoglobuline (anticorpi) di classe M (IgM) e di classe G (IgG) nel siero (da qui il nome "test sierologici"). 

Le IgM sono le prime immunoglobuline che vengono prodotte durante un'infezione, e solitamente entro una settimana il loro livello è sufficientemente alto da poter essere rilevato in laboratorio (sieroconversione).
Nel caso di un virus, la rilevazione delle IgM rappresenta un campanello d’allarme per la presenza dell’infezione virale. Un campanello d'allarme, però, non equivale ad una certezza diagnostica poiché la positività anticorpale può essere influenzata da alcuni fattori, tra cui la possibilità che avvenga una cosiddetta "cross-reattività" (o reattività crociata). Di conseguenza, se si ottiene una positività per le IgM è necessario sottoporre il risultato a verifica effettuando il “test del tampone” con rRT-PCR.

Nel corso delle settimane (solitamente circa 2-3), le IgM tendono a scomparire mentre sale il livello delle IgG. Il rilevamento di queste ultime consente di dire che l’organismo è venuto in contatto con il patogeno nelle settimane precedenti alla misurazione. Non necessariamente l'infezione è ancora in atto, anche se non è possibile escluderlo pienamente, soprattutto se il test viene effettuato su un solo campione anziché due a distanza di tempo. Come per le IgM, anche in questo caso, il ricorso al “test del tampone” è necessario per escludere la presenza del virus al momento del test sierologico.

Sieroconversione
Per sieroconversione si intende il passaggio dallo stato di siero-negatività a quello di siero-positività, ovvero da una condizione in cui non sono presenti anticorpi contro un certo antigene nel siero a quella in cui, invece, essi sono presenti. Ciò è correlato al funzionamento del sistema immunitario, e dunque al fatto che gli anticorpi non vengono prodotti appena si incontra un nuovo antigene (per esempio un nuovo virus). La produzione degli anticorpi, insomma, richiede del tempo, così come è necessario tempo perché siano prodotti in quantità rilevabile con delle analisi. Utilizzando i test sierologici prima della sieroconversione, dunque, si corre il rischio di avere "falsi-negativi".

Poiché SARS-CoV2 è un nuovo virus non abbiamo ancora la certezza che la sieroconversione avvenga con gli stessi tempi di altri virus, sebbene lo si possa verosimilmente ipotizzare.

Cross-reattività
Quest'ultima consiste nella reazione di un anticorpo specifico per un certo antigene con un altro antigene simile (ad esempio appartenente ad un altro agente patogeno). Tra i primi test sierologici prodotti per l'attuale pandemia è stato frequentemente riscontrato il problema della cross-reattività, ovvero essi riconoscevano anche antigeni di altri virus appartenenti alla famiglia Coronavirus. Tale famiglia è molto ampia e alcuni dei suoi membri sono diffusi tra gli umani, ma responsabili di malattie di lieve entità. Una positività del test sierologico, insomma, potrebbe anche essere un "falso-positivo".

Da quanto detto appaiono evidenti alcuni limiti dei test sierologici:
  • deve essere assicurata la specificità dei reagenti usati (come per tutti i test di laboratorio);
  • la possibilità di cross-reattività influisce sull'attendibilità del risultato (possibilità falsi-positivi);
  • non è ancora ben noto il periodo di sieroconversione (possibilità falsi-negativi);
  • un solo prelievo non consente di avere un quadro accurato della situazione, sono necessari almeno due prelievi a distanza di tempo (solitamente 15 giorni circa);
  • sono meno specifici e sensibili rispetto al testo diagnostico effettuato tramite rRT-PCR;
  • non possono sostituirsi al “test del tampone”, il quale consente di prelevare delle cellule dalle vie respiratorie superiori potenzialmente infettate, romperle e cercare il materiale genetico del virus, poiché non esiste nulla di più certo che trovare il materiale genetico del virus dentro le cellule per confermare e diagnosticare l'infezione.
I test sierologici, solitamente, non sono adatti come saggi esclusivi per la diagnosi delle malattie infettive, ma possono essere usati come supporto al test diagnostico ufficiale. Indubbiamente, però, essi possono essere molto utili per le indagini epidemiologiche perché applicabili su larga scala in modo più semplice rispetto alla rRT-PCR. In futuro, i test sierologici potrebbero raccontarci i veri numeri di quest’epidemia, scoprendo quanti individui nella popolazione sono venuti in contatto con il virus SARS-CoV2.

Ad oggi si stanno producendo diversi tipi di test sierologici per l'infezione da SARS-CoV2, ma per molti di essi mancano ancora delle evidenze scientifiche solide per validarne l'utilizzo.

Perché finora non sono stati impiegati i test sierologici?
La prima precisazione da fare è che in alcuni ospedali stanno iniziando ad utilizzare i test sierologici, talvolta su base volontaria, ma si tratta (appropriatamente) di sperimentazioni e indagini epidemiologiche.

Possiamo poi evidenziare alcuni punti utili a spiegare il "ritardo" nell'utilizzo dei test sierologici:
  • prima di utilizzare un nuovo test è necessario che questo sia validato e certificato, ovvero che sia stato sottoposto a verifiche idonee a garantire che sia sufficientemente specifico e sensibile per rilevare la presenza di ciò che si cerca (in questo caso gli anticorpi specifici contro il virus SARS-CoV2) e che rispetti i requisiti di qualità richiesti dalla normativa europea in materia;
  • la validazione è un processo che richiede un certo tempo e deve rispettare un certo iter. Usare test non validati equivale a una perdita di tempo (quello degli operatori che fanno le analisi e dei pazienti che aspettano la risposta) e di denaro (usato per acquistare test inutili);
  • anche volendo "forzare" i limiti dei test sierologici per la diagnosi, essa è ritenuta valida solo se si utilizza una procedura ufficialmente riconosciuta e, giustamente, questa è rappresentata dalla rRT-PCR realizzata a partire dal materiale prelevato sul tampone nasofaringeo; in altre parole, utilizzare altri test sarebbe anche possibile, come screening, ma i casi che essi evidenziano come positivi devono comunque essere confermati tramite rRT-PCR;
  • nella fase emergenziale, durante la quale il numero di contagiati cresce enormemente di giorno in giorno, i laboratori diagnostici hanno il piede spinto sull'acceleratore per processare tutti i campioni e sui quali era obbligatorio utilizzare il test diagnostico ufficiale; non era fattibile destinare alcune delle (già poche) risorse umane disponibili in laboratorio per ottimizzare le condizioni di nuovi test o per processare i campioni con altri test che non fossero quello ufficialmente riconosciuto come diagnostico;
  • allo stesso modo, i medici e gli infermieri attualmente in servizio si sono impegnati nelle corsie o sul territorio per l'assistenza ai malati e non era né realizzabile né opportuno dirottare del personale per destinarlo ad effettuare prelievi su larga scala.

Referenze

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